cover

Questo romanzo è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

In appendice sono riportate alcune ricette di cucina citate nel testo.

La traduzione dei brani tratti da Macbeth di William Shakespeare alle pagine 87 e 132 è di Agostino Lombardo, Giangiacomo Feltrinelli Editore.

ANDREA NAGELE

GRADO NELL’OMBRA

Un altro caso per Maddalena Degrassi

Traduzione di Monica Pesetti

Della stessa autrice:

Grado sotto la pioggia

Titolo originale: Grado im Dunkeln

© 2017 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: maggio 2019

Impaginazione: Rossella Di Palma

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-504-6

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Viale della Piramide Cestia 1c

00153 Roma

www.emonsedizioni.it

A un camionista rumeno sconosciuto

1

“Siamo quasi a secco di benzina!” Nella voce di Violetta risuonava la preoccupazione. “Non credo che basterà fino all’autostrada.”

“Allora sbrighiamoci a fare il pieno. Qui costa anche meno.” Olivia si sforzò di non avere un tono saccente. Non era semplice.

Come le era venuto in mente, a quella stupida, di partire con il serbatoio mezzo vuoto? Eppure lo sapeva che non si trattava di una scampagnata a Pineta, ma di andare a Tarvisio e poi ritornare a Grado.

“Guarda, laggiù!” esclamò così forte che per poco a Violetta non sfuggì il volante. “Un distributore. Fermati!”

Sterzando all’ultimo, con le ruote che stridevano, riuscirono a imboccare l’entrata della piazzola.

“È self-service.”

Ancora una volta Olivia si stupì. Di notte era normale, di notte i distributori erano chiusi, tranne le stazioni di servizio in autostrada. Arricciò le labbra in una smorfia sarcastica. “Cosa ti aspettavi?”

La collega le dava sui nervi dall’inizio della serata. Appena fuori Grado, si era trasformata in un’adolescente esaltata. Al concerto aveva strillato sventolando l’accendino acceso, cantato a squarciagola e pure bevuto, nonostante dovesse guidare. Ok, solo una birra. Comunque.

“Non ci capisco nulla. Come funziona questo dannato aggeggio?” Violetta lanciò a Olivia uno sguardo implorante, neanche i distributori automatici li avesse inventati lei. Si soffiò via una ciocca di capelli scuri dalla fronte, premendo a caso i pulsanti, irritata. “Maledizione, voglio il diesel!”

Schiacciò di nuovo la leva dell’erogatore. Niente. Nemmeno una goccia di carburante.

“Ci penso io, altrimenti stiamo qui fino a domani.” Olivia scostò bruscamente la collega, batté leggermente il polpastrello sulla lettera D e iniziò a riempire il serbatoio. “Visto? Ecco fatto.”

Si accorse di essere più compiaciuta di quanto intendesse e cercò di rimediare. “Ogni tanto fanno i capricci. Ho avuto solo fortuna.”

“Grazie. Temevo già di dover dormire in macchina. Tra l’altro ero convintissima di avere abbastanza benzina. Mah…”

Tutta quella storia era stata un’idea di Violetta.

“E se domani facessimo un salto al No Borders Festival? Tarvisio è a due passi. Ci sono i Muse. Non so se mi spiego: i Muse.” La proposta era caduta nella sala insegnanti durante l’intervallo.

Olivia si era guardata intorno sorpresa, cercando di capire a chi fosse diretta. A lei, la prosaica professoressa di chimica con i suoi esperimenti, amati dalla metà degli studenti e odiati dall’altra metà? Vide che anche un paio di colleghi avevano alzato la testa.

“Da Grado a Tarvisio sono almeno centoquaranta chilometri, non li definirei due passi.”

Diversamente dal solito, il pedante commento di Paolo, che insegnava geografia, non suscitò obiezioni.

“Insomma, non vi interessa?”

Fu Fabrizio a porre fine alla perplessità di Olivia. “Io verrei volentieri, ma non sarebbe giusto verso mia moglie. La piccola strilla tutta la notte e Bibiana non dorme da settimane. Non posso mettermi a fare il ragazzino.”

Violetta ridacchiò nel tovagliolo di carta.

Fabrizio era il collega preferito di Olivia, che nutriva una grande stima nei suoi confronti. Al contrario degli altri, si fermava spesso con lei a chiacchierare, si interessava alle sue opinioni politiche e al rendimento dei ragazzi che entrambi avevano in classe, ogni tanto la invitava a cena insieme al fratello Toto e a volte la domenica passava a prendere il caffè da loro. Da poco lui e la moglie avevano avuto una bambina, quando ormai non ci speravano più. Alla bella notizia, il viso chiaro e rotondo di Fabrizio aveva sprizzato gioia per mesi.

“Allora andremo solo noi due. Ci stai?” le aveva domandato Violetta, guardandola negli occhi.

A quel punto aveva capito, diceva proprio a lei. A lei, l’anonima, noiosa Olivia. Imbarazzata per il rossore che le era salito alle guance, aveva battuto meccanicamente il palmo sulla mano aperta sollevata da Violetta.

“Ci sto, però guidi tu.”

“Ovvio.”

Per un attimo si era sentita giovane, perlomeno più giovane dei suoi trentotto anni.

Un concerto pop. E, come se non bastasse, dei Muse. Cose come quelle le facevano i suoi studenti, non lei.

Elettrizzata, aveva preso un caffè e una bottiglietta d’acqua al distributore automatico. Senza dubbio Violetta, l’ultima arrivata nel corpo docenti, aveva portato una ventata di aria fresca tra le quattro mura polverose di quella scuola. Era divertente e spensierata, e fin dal primo giorno aveva instaurato un buon rapporto con i ragazzi e i colleghi. Le sue lezioni di musica e storia dell’arte erano originali, sapeva risvegliare la curiosità degli studenti raccontando aneddoti su pittori e compositori celebri. Dopo soli sei mesi, quella giovane donna con lo sguardo sveglio, il caschetto scuro a incorniciarle il viso delicato, quasi di porcellana, aveva influito sul loro apprendimento più della stragrande maggioranza dei colleghi di ruolo da anni.

E adesso voleva uscire insieme a lei.

La banale e anonima Olivia.

Ecco il risultato: una serata sfiancante con musica a tutto volume, ubriachi schiamazzanti e Violetta su di giri, senza freni come gli adolescenti a cui insegnava. Incapace perfino di fare il pieno da sola. Nel giro di poche ore l’immagine idealizzata che aveva della nuova collega aveva subìto un radicale ridimensionamento.

Faceva freddo. Nuvole sfilacciate passavano veloci davanti a una luna pallida. Rabbrividendo, si strinse sulle spalle il cardigan sottile.

“Vuoi che guidi io?” si offrì con scarso entusiasmo.

“Perché mai? Ora è tutto a posto.”

Contenta tu, pensò Olivia, e decise di punire la collega con il silenzio. Una tattica che con suo fratello Toto funzionava sempre.

Violetta avviò la Fiat e riprese a chiacchierare rilassata. Sembrava non accorgersi che la compagna non apriva bocca.

Iniziò il tratto di autostrada, monotono, con gallerie che si susseguivano come se non dovessero finire mai. Buco nero dopo buco nero.

Un velo di sudore freddo coprì la fronte di Olivia. Gallerie, ascensori e altri luoghi stretti le procuravano un certo malessere.

Le ennesime fauci nere spalancate le inghiottirono.

Al suo fianco Violetta cacciò un urlo.

“La macchina sta rallentando! Cosa devo fare?” ansimò spaventata, mentre stringeva le dita sul volante fino a sbiancare le nocche.

“Dai gas!” la aggredì lei.

Violetta schiacciò l’acceleratore, ma l’auto continuò a rallentare, e infine si spense.

“Rimetti in moto.”

Violetta girò la chiave. Un rumore poco rassicurante e nessuna reazione.

Erano ferme in mezzo alla galleria. Sulla corsia di destra. Accanto a loro i veicoli sfrecciavano lampeggiando con i fari e strombazzando. Non c’era la corsia di emergenza.

Olivia gonfiò le guance e buttò fuori l’aria. Si accorse che il cuore le batteva più forte. Per alcuni secondi il terrore la attanagliò, le cancellò ogni colore dal viso, le impedì di pensare lucidamente.

Sul sedile del guidatore Violetta tremava e piangeva senza ritegno. “Moriremo.”

I singhiozzi aumentarono diventando prima disperati, poi insopportabili, fino a riscuotere Olivia dallo shock che la paralizzava.

“Il 112. Dobbiamo chiamare aiuto. Subito!” gridò frugando con mani tremanti in cerca dello smartphone.

Digitò il numero.

“Pronto intervento, dica pure.”

“Siamo bloccate in galleria. La macchina non parte,” disse con voce rauca.

“Dove siete? Mi dia la vostra posizione.”

Prima che potesse rispondere, Violetta le strappò il telefono.

“Moriremo! Tirateci fuori da qui!” gridò in preda al panico. Poi guardò la collega sgranando gli occhi. “Come si chiama questa cazzo di galleria? Sbrigati, dimmelo!”

“Non lo so, non ci ho fatto caso,” balbettò Olivia, e Violetta perse definitivamente la testa.

“Non sappiamo dove siamo!” urlò. “Le gallerie sono tutte uguali. Da un attimo all’altro qualcuno ci verrà addosso e moriremo!” Tra le lacrime, scagliò il cellulare sul sedile posteriore e si premette le mani sulle guance esangui.

Olivia era pietrificata. Percepiva ogni minimo dettaglio amplificato al massimo. A quanto pareva la sua fobia era fondata, ma la scoperta non le diede alcun conforto.

“È assurdo,” piagnucolò Violetta, aggrappandosi al volante come a un salvagente.

Quando un altro TIR le superò facendo oscillare la macchina, Olivia la prese per le spalle e la scosse con forza. “Dobbiamo andarcene,” disse scandendo le parole, “altrimenti ci ammazzano per davvero. Qui dentro siamo in trappola.”

Spalancò la portiera e saltò fuori.

“Forza, scendi!” insistette piegandosi di nuovo all’interno dell’abitacolo e afferrando Violetta per la manica. “Non da quella parte, vuoi farti investire?”

Indietreggiarono fino alla parete della galleria, schiacciando il corpo contro il cemento ruvido.

“Dobbiamo raggiungere una colonnina SOS.”

Olivia trascinò senza troppi riguardi la collega recalcitrante, sconvolta dalla paura. Avanzarono lungo il muro, illuminate dai fari e accompagnate dal coro dei clacson.

“Non abbiamo nemmeno il gilet segnaletico,” si lamentò Violetta, che la tallonava continuando a sbatterle contro.

“Non importa. Datti una calmata.”

Negli ultimi minuti Olivia era passata volutamente alla modalità insegnante, era l’unico modo per mantenere un minimo di controllo.

Nessuna colonnina SOS, nessuna rientranza, niente che offrisse un riparo sicuro. La galleria si srotolava davanti a loro, sempre uguale, e l’odore dei gas di scarico era insopportabile.

“Non ce la faccio più,” piagnucolò Violetta bloccandosi di colpo.

Davanti a loro, come spuntati dal nulla, lampeggianti azzurri. E il suono delle sirene.

“La polizia, grazie a Dio!” Violetta barcollò e si accasciò a terra singhiozzando.

Una volante si fermò accanto a loro, un’altra aveva bloccato la corsia a circa trecento metri di distanza dalla Fiat. Scesero due agenti.

“Come… come ci avete trovate?” balbettò Olivia.

“Con le telecamere di sorveglianza,” fu la secca risposta.

“Dobbiamo trainare subito la vostra auto fuori dalla galleria, è un miracolo che non ci siano stati incidenti.” Il tono del secondo poliziotto era brusco.

Per fortuna è notte fonda, pensò Olivia facendosi il segno della croce, mentre tornavano indietro di corsa. In macchina gettò un’occhiata all’orologio. Da quando avevano chiamato i soccorsi erano trascorsi appena sette minuti. Sette minuti che le erano sembrati ore.

Gli agenti fissarono il cavo da rimorchio, e Olivia cercò di tranquillizzare Violetta, scossa da un tremito convulso. Avrebbe preferito riportarla alla ragione a forza di schiaffi. Con che coraggio si lasciava andare in quel modo? Non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea che la situazione fosse stressante per tutte e due? Per colpa del suo crollo nervoso, le era toccato essere quella forte, ma in realtà avrebbe avuto bisogno di conforto tanto quanto lei.

Il più giovane dei due agenti della Stradale si avvicinò al lato passeggero e chinandosi verso il finestrino aperto parlò a Violetta, calmo ma deciso. “Ora usciamo insieme dalla galleria.”

Al suo comando, Violetta mise in folle e tolse il freno a mano. L’agente raggiunse la volante e salì accanto al collega, che partì lentamente. Il cavo si tese e, con uno strappo, la Fiat si mosse in avanti.

“Chi si crede di essere quell’idiota, un pilota di Formula 1? Così lo tamponiamo!” si allarmò Violetta, i denti che le battevano e le dita ancora serrate sulla leva del freno a mano.

“Sta’ calma, sanno quello che fanno.” La voce di Olivia era rilassata, cosa che stupì lei per prima. Appoggiò la mano sul braccio di Violetta, incoraggiante.

Poi la galleria le sputò fuori e la notte le accolse.

“Siamo salve. Finalmente!” Olivia tirò un sospiro di sollievo, sorvolando sull’imprecazione di Violetta quando, ormai sulla corsia di emergenza, il paraurti della Fiat urtò quello della volante. Appena scesa, si meravigliò della rapidità con cui la collega, passato il pericolo, riacquistava di fronte ai poliziotti la sua vecchia natura civettuola.

La macchina era parcheggiata all’uscita della galleria. Nel frattempo era arrivata anche la seconda volante, con il lampeggiante e la sirena in funzione. Il rosso intermittente delle quattro frecce si mescolava all’azzurro che ruotava, in un groviglio di colori agitati.

Frastornata, Olivia chiuse gli occhi per un attimo. Le immagini vivide impresse sulla retina la disturbavano, ma gradualmente il respiro tornò regolare e il battito del cuore diminuì.

Tre agenti parlavano con Violetta, che si era allontanata di qualche metro. Era una sua impressione o stava ridendo? Un quarto si diresse verso di lei, e solo allora si accorse che era una donna. Aveva l’aria molto stanca e gli occhi cerchiati. La sua voce però era gentile, la informava con una punta di rimprovero che entrambe erano scampate per un pelo a un incidente potenzialmente mortale.

Olivia se n’era resa conto da sola, però era troppo scossa, e soprattutto troppo sollevata per ribattere. Quando sentì la risata di uno degli agenti, all’improvviso si vergognò di come erano vestite.

Violetta indossava una minigonna, stivali sopra il ginocchio e un top scollato; la giacca di pelle era rimasta in macchina, sul sedile posteriore. Lei invece portava jeans grigi attillati comprati apposta per il concerto, ankle boots e, sotto un cardigan di lana leggero, una maglietta nera con la scritta “Amuse”, luccicante, che aveva fatto sbellicare sua cugina Emilia, di sedici anni, e la sua amica Nicoletta. I capelli chiari erano raccolti in una coda di cavallo alta. Di fronte alla polizia quell’abbigliamento le sembrò stupido, totalmente fuori luogo. Avrebbe pagato oro per essersi messa uno dei suoi soliti completi classici.

Qualcuno, in tono divertito, fece notare a Violetta che aveva scelto il carburante sbagliato. Lei negò scuotendo con foga il caschetto. “Diesel c’era scritto e diesel abbiamo messo,” ribatté caparbia.

Olivia non ne era più così sicura, e l’uso del plurale la irritò.

“Bene, signore, noi adesso ce ne andiamo. Il carro attrezzi è stato avvisato, sarà qui a momenti.”

“Come? Ci lasciate sole in piena notte? Non direte sul serio!”

“Anche a casa ci aspettano delle belle donne.”

Insieme al tentativo di sminuire i loro timori con una battuta allusiva, tornò la paura. Olivia si rivolse alla poliziotta. “Dovete rimanere con noi. Da donna sono sicura che capirà il perché.”

“Non si preoccupi, conosco l’autista. È una persona affidabile e pratica del mestiere, arriverà tra poco.” Quelle parole avrebbero dovuto rassicurarla, ma a Olivia non sfuggì la sfumatura di indifferenza.

Le radio di servizio gracchiarono. Uno degli agenti rispose, poi chiamò gli altri con un cenno. “Incidente all’uscita di Carnia Tolmezzo. Dobbiamo intervenire.”

“Per favore, non lasciateci qui da sole.” Violetta aveva la voce rotta. “È buio e ci sono i camion e… Almeno due di voi potrebbero restare.”

Olivia sapeva che quella richiesta era inutile.

“Lascia stare, dobbiamo arrangiarci,” disse alla collega. “Ormai il carro attrezzi arriverà da un momento all’altro.”

“Esatto,” confermò il poliziotto più anziano. “Tornate in macchina e aspettate lì. Non manca molto, ve lo garantisco.”

Le due donne percorsero i pochi metri che le separavano dalla Fiat. Violetta scavalcò goffamente il sedile del passeggero, Olivia si sedette accanto a lei. Si accorse di avere i muscoli contratti e un principio di emicrania che le saliva lungo la nuca. Era ridotta uno straccio. Di fronte a lei i fari posteriori delle volanti che si allontanavano, a fianco Violetta che piangeva di nuovo.

Rimase immobile a lungo, concentrandosi sul respiro per tenere a bada il panico che minacciava di assalirla. Il rumore monotono del traffico e il bagliore regolare delle luci di emergenza conciliavano il sonno. Abbassò le palpebre, esausta.

I singhiozzi di Violetta si interruppero bruscamente e si trasformarono in un grido. “Non è possibile! Guarda!”

Olivia aprì gli occhi e vide cosa sconvolgeva la collega. L’abitacolo era al buio, le quattro frecce non lampeggiavano più.

“Si sono rotte anche loro,” constatò atterrita. “Ci mancava solo questa.” Le gambe iniziarono a tremarle in maniera incontrollata.

Adesso fu Violetta a prendere il comando. “Scendiamo. Non possiamo rimanere sedute qui dentro, ci verranno addosso.”

Uscirono in fretta dalla macchina e si spostarono a distanza di sicurezza. Violetta, che aveva già esaurito tutto il suo coraggio, si aggrappò al braccio di Olivia.

Il freddo era aumentato. La luna si era nascosta dietro spesse nuvole.

Mano nella mano, si appoggiarono al bordo spigoloso del guardrail. Dietro di loro un abisso nero, intorno l’oscurità interrotta solo dai fari che si avvicinavano e passavano oltre. I coni di luce accecante le obbligavano a voltarsi dall’altra parte.

In ogni veicolo di grandi dimensioni che usciva dalla galleria speravano di riconoscere il carro attrezzi, ma ogni volta restavano deluse. E ogni volta lo sconforto cresceva.

“Quel tizio ha spento i fari subito dopo averci superate. Non è normale,” disse Violetta impaurita.

Esasperata, Olivia scosse la testa. “Smettila, così ci spaventiamo ancora di più. Te lo sei immaginato. Io non ho visto niente.”

Le fantasie incontrollate dovevano essere stroncate sul nascere, non facevano che peggiorare la situazione poco rosea di per sé.

“Sì, forse hai ragione,” si arrese Violetta. Non ne era del tutto convinta, ma per fortuna evitò di approfondire la questione.

Presto persero la cognizione del tempo, intontite dal rumore dei camion che sfrecciavano troppo vicini e dal tanfo dei gas di scarico.

“Ma possono viaggiare anche a quest’ora? Di notte non dovrebbero fermarsi per legge?” Violetta era prossima all’ennesima crisi.

“Non ne ho idea,” rispose Olivia, cercando di ripararsi dal passaggio di una Porsche.

Il continuo spostamento d’aria faceva vacillare sia loro sia la Fiat ferma a pochi metri.

“È una vita che aspettiamo, ora basta,” sbottò a un tratto Olivia. “Chiamo la polizia, e questa volta mi sentono,” continuò risoluta, per farsi coraggio. “Se il carro attrezzi non arriva nel giro di dieci minuti, tra due giorni si ritrovano sul giornale. Vediamo se non si danno una mossa.”

Perché non mi è venuto in mente prima? si chiese arrabbiata armeggiando con la tasca dei jeans stretti.

“Dov’è il mio cellulare? Devo averlo perso,” disse dopo un po’. “Sbrigati, dammi il tuo.”

“L’ho lasciato a casa,” rispose Violetta con un filo di voce, intimidita dal tono duro di Olivia. “Il tuo è in macchina,” aggiunse in fretta. “L’ho gettato sul sedile posteriore quando eravamo in galleria, e il 112 perdeva tempo con tutte quelle domande stupide.”

“Non ci posso credere. Tu e le tue reazioni isteriche,” borbottò Olivia incamminandosi. Fu investita di nuovo da uno spostamento d’aria e voltò la testa. Poi spalancò la portiera e si chinò nell’abitacolo. Dove era finito il cellulare? Sul sedile posteriore c’era solo la giacca della collega.

Si piegò in avanti, tastando il tappetino.

L’emicrania era diventata insopportabile, e si maledì per non aver portato degli analgesici. Finalmente sfiorò lo smartphone con la punta delle dita. Uscì dalla macchina.

“L’ho trovato!” gridò tornando indietro.

Di fronte a lei la corsia d’emergenza era vuota.

Nessuna traccia di Violetta.

“Violetta, dove sei?”

Olivia, il cuore in gola, si affacciò al guardrail e fissò il vuoto. Solo buio pesto.

Era caduta di sotto?

“Violetta!” chiamò, continuando a ripete il nome della collega, la voce sempre più disperata.

A un certo punto smise, senza fiato, e iniziò a tremare come una foglia.

Violetta non c’era, si era dissolta, era sparita. Spazzata via, scomparsa dalla faccia della Terra.

Come era possibile?

Non si era accorta di nulla, impegnata a cercare il cellulare e a combattere con il mal di testa.

Sola, sul ciglio dell’autostrada a notte fonda, abbandonata a se stessa in una situazione che non comprendeva, Olivia sentì le lacrime rigarle le guance.

Perché non aveva visto niente, notato niente?

E poi, un pensiero fulmineo le gelò il sangue. Le parole angosciate della collega le risuonarono nelle orecchie. “Quel tizio ha spento i fari subito dopo averci superate. Non è normale.”

E se avesse avuto ragione? Se lo sconosciuto fosse tornato indietro e l’avesse portata via?

Si lasciò scivolare lentamente, la schiena appoggiata al guardrail. Con dita tremanti, digitò il numero della polizia.

“La mia amica è appena stata rapita.”

2

Violetta aprì gli occhi.

Ai margini del suo campo visivo il paesaggio si sfilacciava perdendosi nel blu scuro della notte. Il silenzio era spettrale. Ogni cosa sembrava slegata dalla realtà. Distorta. L’incubo dal quale si era svegliata di soprassalto la teneva ancora prigioniera.

Una corrente di aria fredda la fece rabbrividire.

Cercò di sollevare le braccia, ma non le obbedirono. Un peso la schiacciava, spremendole l’aria dai polmoni. Provocandole dolore.

Calmati. Ora sei sveglia. Un bicchiere d’acqua, un’aspirina per sedare le fitte alla testa e al collo, e poi ti addormenti di nuovo. Questa volta senza brutti sogni.

“Puttana,” la schernì una voce rauca. Gocce di saliva le schizzarono in faccia. Occhi infuocati come braci la sovrastavano.

Un rantolo. Era stata lei?

Violetta spalancò la bocca in un grido. Inarcò la schiena. Doveva svegliarsi.

Un colpo violento le sferzò la guancia, poi un pezzo di stoffa dall’odore pungente si posò su naso e labbra.

L’oscurità la ghermì, sprofondandola in un sonno privo di sensi.

A un certo punto riprese conoscenza.

Uno strappo, uno scossone.

Zampe di ragno le solleticavano il viso. Insetti strisciavano sulla sua pelle nuda. Le palpebre iniziarono a sfarfallare. Un macigno di una tonnellata le teneva incollate agli occhi. Riuscì a malapena a sollevarle di qualche millimetro, ma ciò che vide era appannato e confuso. Le lacrime formavano piccole pozze dalle quali doveva riemergere.

Richiami, forti e acuti.

Un angelo si chinò su di lei. Bellissimi capelli biondi incorniciavano l’ovale delicato. La bocca rosa si muoveva, formulando suoni di cui non riusciva a cogliere il senso.

In alto, una luna pallida spuntava dalle chiome degli alberi che ondeggiavano piano.

Le arrivarono rumori di macchine su una strada vicina.

“Deve bere.” Dietro il viso dell’angelo comparvero dei riccioli mori.

Una mano vigorosa le sorresse la schiena, e tra le labbra dischiuse scivolò dell’acqua fresca. Le andò di traverso e cominciò a tossire. Le bruciava la gola, come fosse serrata da un cappio. Si sentiva soffocare.

Era in cielo? Aveva assaggiato il leggendario nettare degli dèi?

Respirando a fatica, provò a mettersi seduta. Intorno a lei i contorni svanivano. Era costretta a sforzarsi per metterli a fuoco. Doveva tornare lucida. Non ci riuscì.

Due voci, una nitida, una gutturale. Volevano qualcosa che non capiva.

Istintivamente si coprì il viso con le braccia per proteggersi.

Adesso le voci parlavano tra loro, non si rivolgevano più a lei.

Singole parole la raggiunsero.

Ambulanza. Polizia. Aiuto.

Lentamente, molto lentamente, lo stordimento si dissolse, lentamente diminuì anche il peso sulle palpebre, lentamente la gola si aprì. Poté inghiottire il liquido e subito dopo fare un respiro profondo.

Si ritrovò in piedi, rimase per un attimo malferma sulle gambe, che poi cedettero piegandosi. Se le braccia dell’angelo non l’avessero sostenuta, sarebbe crollata.

“Dobbiamo portarla in ospedale.”

“No!” Voleva urlare, ma emise solo un verso gracchiante.

Violetta si ribellò.

La nebbia nella sua testa si stava diradando a poco a poco.

Non era un incubo. Non era nel suo letto, non era nella sua camera.

“Olivia?”

Non era lì con lei un istante prima? Che posto era, quello?

Spaventata, abbassò gli occhi e si guardò. Indossava gli stivali, però aveva le gambe nude, la minigonna sollevata sopra i fianchi, ed era senza slip. Le sue dita tastarono sotto il top, sfiorando una striscia di tessuto legata stretta intorno al collo. Violetta tirò finché non si ritrovò in mano il reggiseno.

Si mise a piangere.

“Va tutto bene. È finita,” mormorò la voce gutturale mentre lei singhiozzava.

Aveva bisogno di essere aiutata da braccia forti, non era in grado di camminare da sola.

“Chi siete?” balbettò battendo i denti. “Cosa è successo?”

I begli occhi dell’angelo biondo la fissarono attentamente. “Dobbiamo portarti in ospedale. Sei sotto shock.” Il tono era dolce, ma aveva una sfumatura risoluta che non ammetteva obiezioni. “Qui davanti c’è una panchina. Vieni, sediamoci un momento.”

Fu accompagnata ancora per qualche metro. “Non si regge in piedi e sta congelando. Vado a prendere la coperta in macchina,” aggiunse piano la voce, non più diretta a lei.

Solo dopo aver bevuto un’intera bottiglia d’acqua, Violetta tornò vagamente in sé. Ogni singolo sorso le costava un grande sforzo, ma le procurava un immenso sollievo. Ora poteva distinguere i due visi che la osservavano preoccupati.

“Cosa è successo?” chiese di nuovo. “Cosa ci faccio qui?”

“Non ricordi niente?” La domanda arrivava dall’uomo con i capelli ricci.

“Niente. Mi sembra di avere il cervello avvolto nell’ovatta, non riesco a pensare. Mi gira la testa e ho la nausea.” Si schiarì la gola. “Dove siamo?”

“In un parcheggio.”

“In un’area di servizio?”

“No, a Carnia Ovest, qualche chilometro dopo. Lei è Claire, mia moglie, e io sono Maurizio. Stavamo tornando a casa, e ci siamo fermati per darci il cambio.”

Nessuna apparizione celestiale, dunque, ma persone in carne e ossa.

“Violetta,” si presentò con un filo di voce.

Un uccello notturno volò accanto a loro. Accidenti, se aveva freddo. I pensieri erano schegge impazzite.

“E Olivia? Non capisco, era con me. Questo me lo ricordo bene.” Si strinse sulle spalle la coperta ruvida, che odorava di cane bagnato.

“Olivia?” ripeterono i due.

“La mia collega. Insegniamo nella stessa scuola.”

Violetta si bloccò. Il concerto a Tarvisio. Il distributore. La galleria. Il guasto alla macchina. L’attesa infinita sull’autostrada minacciosa.

Le tornò in mente tutto, le immagini scorrevano nitide. Ricordava ogni dettaglio. Olivia voleva chiamare la polizia.

Poi, di colpo, il buio.

Come se qualcuno avesse spento un interruttore.

“Abbiamo avuto un guasto. C’era la polizia. Io e Olivia abbiamo aspettato il carro attrezzi. Per ore, non arrivava mai. A un certo punto lei è tornata in macchina a prendere il cellulare. Rivedo ancora la sua schiena, e sono sicura di aver pensato che la coda di cavallo le donava, dovrebbe pettinarsi così più spesso. La fa sembrare meno severa, la ringiovanisce.”

Claire si chinò verso di lei. “E dopo cosa è successo?”

“Non lo so. Da quel momento non ricordo più nulla.” Violetta ricominciò a piangere. Ogni parola le raschiava la gola. “Dove mi avete trovata?”

I due si scambiarono uno sguardo.

“Ci siamo fermati laggiù,” Maurizio indicò un’auto con le portiere aperte, “e siamo scesi. All’improvviso un uomo ha attraversato di corsa il campo, è salito su una macchina ed è partito in quarta a fari spenti. Siamo rimasti sorpresi, però non abbiamo pensato a nulla di grave. Poi Claire ha sentito un lamento. Credevamo fosse un animale abbandonato o investito, così lo abbiamo cercato e ti abbiamo vista.”

Claire le prese la mano con delicatezza. “Eri in stato confusionale. A quanto pare abbiamo messo in fuga qualcuno. Ti fa male da qualche parte?”

“Ovunque.” Violetta gettò una rapida occhiata alle gambe nude. Era stata violentata? Non lo sapeva.

“Ora ti accompagniamo all’ospedale di Udine. Devi farti visitare.”

“No, all’ospedale no.”

I due si guardarono impotenti e confabularono piano tra loro.

“Va bene. Abitiamo a Grado, e Claire conosce la commissaria. Andiamo da lei. Non possiamo lasciarti qui, sarebbe da irresponsabili.”

“Anch’io abito a Grado,” disse Violetta sollevata. “Portatemi a casa, per favore.”

Voleva solo farsi una lunga doccia calda e scolarsi un cognac. E dormire. Dormire e dimenticare. Anche quello che non ricordava più.

Domani. Sì, magari il giorno dopo sarebbe andata alla polizia. Ma a quei due lo avrebbe detto solo una volta arrivati a Grado.

Mentre camminava a passi incerti verso la macchina, Violetta tirò giù più che poté l’orlo della minigonna. Non aveva ritrovato gli slip.

Maurizio avviò il motore, mise la freccia e rientrò in autostrada. Quando accese gli abbaglianti, nella testa di Violetta i ricordi iniziarono a rincorrersi.

3

Maddalena Degrassi trasalì al suono del cellulare, risvegliandosi da un sonno senza sogni.

Intontita, si stropicciò gli occhi. Ancora una volta era andata a letto troppo tardi, in più le ci era voluto un pezzo per addormentarsi. Troppi problemi irrisolti le mulinavano in testa.

“Sì,” mormorò con voce rauca.

“Sono Zoli. Deve venire subito, commissaria.” Fece una pausa. “Per favore,” aggiunse poi in tono sottomesso.

Tipico di Piero Zoli, pensò Maddalena. Mai scendere nei particolari al telefono. Almeno però grazie a lui beveva un caffè degno di quel nome. Forte e dall’aroma intenso. Il collega ne aveva sempre un thermos pieno. “Appena macinato e preparato da mia madre,” ribadiva orgoglioso.

“Arrivo,” borbottò Maddalena saltando giù dal letto. Il pavimento in pietra sotto i piedi nudi le ricordò che non abitava più nel suo monolocale, e sospirò.

Come sempre quando vagava per quelle grandi stanze vuote, sollevando la polvere negli angoli e ascoltando i fantasmi del passato, provava una sgradevole sensazione. La sensazione di trovarsi fuori posto. Aveva traslocato da poco nell’antica villa sul lungomare, piena di anfratti, e si sentiva ancora un’estranea. Alla sorpresa e alla felicità iniziale di aver ereditato quel tesoro dalla defunta Angelina Maria Cecon, era subentrato ben presto il disagio.

Le mancava il suo vecchio nido. “La scatola da scarpe con vista”, come aveva affettuosamente ribattezzato il minuscolo appartamento con il balconcino in cui viveva.

Se voleva sentirsi a casa nella nuova sistemazione, doveva decidersi ad apportare qualche modifica. Avrebbe lucidato e riverniciato le assi di legno dell’ingresso, ridipinto le pareti, buttato via parecchia roba e, piano piano, cambiato l’arredamento.

Considerando il suo lavoro al commissariato, sarebbe stata una vera sfida. Avrebbe avuto bisogno di qualche aiuto e di una montagna di soldi. Non poteva certo rivolgersi ai colleghi e tantomeno al capo, il suo diretto superiore. Sogghignò immaginando il burbero comandante in bilico su una scala a pioli, il pennello stretto in pugno, che si sforzava di mantenere l’equilibrio.

Per un attimo pensò a Franjo e al fatto che avrebbero potuto occuparsene insieme. Si passò la mano sugli occhi per scacciare la tristezza che stava già affiorando.

Non lo sentiva da mesi, e nemmeno lei l’aveva cercato.

Dopo essersi fatta una doccia veloce, lavata in fretta i denti e truccata alla meglio, decise di concedersi una sigaretta, malgrado l’urgenza nella voce di Zoli. Pazienza, avrebbe dovuto aspettare cinque minuti in più.

Riempì un bicchiere con l’acqua del rubinetto e poco dopo, in jeans e felpa, scalza, si accese una sigaretta sulla terrazza. Sotto di lei le onde del mare color antracite. All’orizzonte le luci argentate di qualche barca che rollava lenta.

A Maddalena piaceva il leggero sciabordio della bassa marea, ma ancora di più ascoltare i flutti in tempesta che si frangevano mugghiando sugli scogli e guardare gli spruzzi di schiuma biancastra.

Lasciò il bicchiere in terrazza e gettò il mozzicone verso l’acqua. Una pessima abitudine, lo sapeva. Benché avesse centrato varie volte la passeggiata, che lì chiamavano “DIGA”, non riusciva a togliersi quel brutto vizio. Assorta, seguì la traiettoria della brace.

Alla fine rientrò, si infilò gli stivali, raccolse i riccioli neri fermandoli sulla nuca e si avviò.

Era l’alba, a breve avrebbe fatto giorno. Eppure era decisamente troppo presto per essere svegliati, troppo presto per iniziare a lavorare. Soprattutto di domenica. Ma i criminali non si curavano dei giorni della settimana.

Maddalena inforcò la bicicletta e attraversò la città vecchia ancora silenziosa, diretta al commissariato. La pace era interrotta solo dai versi striduli di alcuni gabbiani all’interno del Parco delle Rose. Lì la strada procedeva parallela alla spiaggia, deserta a quell’ora, perciò poté spingere con forza sui pedali. L’odore acre del mare si mescolava a quello resinoso e aromatico della vegetazione.

Per lei che era nata nell’aspro paesaggio del Carso, Grado era una miniera inesauribile: la pineta, i roseti, la salsedine, la laguna e per di più il mare. Avrebbe dovuto ringraziare, invece di prendersela tanto perché era stata chiamata in servizio di prima mattina.

Alla fine del parco, di fronte al campo sportivo, spuntò all’improvviso l’orribile costruzione gialla del commissariato, simile a un carcere di massima sicurezza. Maddalena lasciò la bicicletta fuori dalla recinzione che circondava l’edificio. Digitò il codice per aprire il cancello e passò il tesserino sul sensore all’ingresso principale. Di recente, anche da loro erano stati installati i varchi elettronici.

“Dal momento che oggigiorno salta in aria mezzo mondo, dobbiamo tutelare al meglio il commissariato. I terroristi non si fermano neanche davanti a Grado, quindi agiamo di conseguenza,” aveva annunciato il capo della polizia, l’irascibile comandante Scaramuzza, sfregandosi le mani soddisfatto. Dato che per la maggior parte del tempo era impegnato in missioni ufficiali con altri importanti funzionari, il plurale era chiaramente riferito a coloro che, al contrario di lui, passavano le giornate lì dentro.

Subito dopo la nomina, Maddalena si era scontrata spesso e volentieri col suo superiore, ma ultimamente aveva imparato a sorridere delle sue esternazioni e ignorarne, nei limiti del lecito, le direttive, anziché farsi il sangue amaro dalla rabbia. Forse nel frattempo era diventata più saggia, più matura, temprata dalla sabbia e dal vento.

Dopo essere entrata, inspirò il familiare odore di muffa, ritrovandosi di colpo in un mondo vecchio stile diametralmente opposto all’impressione data dall’aspetto esterno. Le assi di legno cigolarono minacciose sotto i suoi passi rapidi.

Prima di arrivare in ufficio, avvertì una presenza alle sue spalle.

“Zoli, mi ha spaventata.”

Alla luce artificiale del corridoio il viso dell’agente appariva più scavato del solito, il naso più aquilino. Aveva un’espressione colpevole.

“Nessun problema,” lo rassicurò lei continuando a camminare. “Allora, cosa c’è di tanto urgente?”

Zoli iniziò a fare rapporto.

“Ciao, Claire,” disse Maddalena poco dopo, salutando la giovane donna con gli splendidi capelli biondi, conosciuta qualche mese prima al corso di Pilates.

Le piaceva Claire, con quel nome francese che portava con la regalità di un giglio borbonico, bella come un angelo e piena di fascino e verve. L’inverno precedente lei e il marito, Maurizio, un tipo simpatico sulla trentina, moro e riccio, che adesso le sedeva accanto con l’aria un po’ spaesata, avevano rilevato una cartoleria nel centro storico, e combattevano con le difficoltà legate a ogni nuovo inizio.

“Maddalena, meno male che sei arrivata,” esclamò Claire in tono agitato. “Forse abbiamo messo in fuga uno stupratore.” Trattenne il respiro per un attimo. “L’abbiamo trovata in un parcheggio,” concluse.

Quindi indicò con l’indice smaltato di rosa la porta aperta che dava nella stanza adiacente. La donna pallida, con il caschetto scuro, rannicchiata sulla sedia di plastica, una coperta avvolta intorno alle spalle, non si era accorta di lei. Una funzionaria in uniforme le parlava, appoggiata alla scrivania.

“Un attimo.” Maddalena, informata dell’accaduto da Zoli, andò nell’ufficio accanto, che il sottoposto divideva con Lippi. “Grazie, Beltrame,” disse alla poliziotta. Rita Beltrame, figlia di un medico di Grado, si era unita a loro di recente. Sveglia e alla mano, si era resa indispensabile nella sua squadra. Era una fortuna che quella notte fosse di turno insieme a Zoli.

“Commissaria, questa è la signora Violetta Capello,” spiegò lei. “Fa l’insegnante e abita qui in città. Da sola, ci ha detto. Volevo avvisare la famiglia, ma vive a Torino. La signora preferisce non far preoccupare i genitori e parlarci di persona più tardi,” aggiunse. “Ho chiesto una volante con una collega, dovrebbe essere qui a momenti.”

Maddalena annuì in segno di approvazione. Era proprio quello che le piaceva dell’agente: rifletteva e sapeva quanto fosse fondamentale il sostegno femminile per le vittime di abusi sessuali.

“Signora Capello,” iniziò con delicatezza piegandosi in avanti, “prima che la interroghi, due mie agenti la porteranno in ospedale per essere visitata.”

“No, niente ospedale.” Il panico nella voce di Violetta era inequivocabile. “Voglio andare a casa e farmi finalmente una doccia. È una sensazione orribile, ripugnante, mi sento sporca. Non lo capisce nessuno cosa ho passato?” Scoppiò a piangere.

“Ma certo che lo capiamo. Capiamo benissimo,” rispose gentile Maddalena posandole la mano sul braccio, dolcemente ma con fermezza. “Però è importante che si lasci visitare, non solo per gli accertamenti del caso. È probabile che sia stata sedata, potrebbe aver bisogno di farmaci o di una flebo. Non ci vorrà molto, glielo garantisco, e le dottoresse che si occuperanno di lei sono estremamente competenti e premurose. Mi creda, immagino quanto debba essere tremendo tutto questo, ma faremo il possibile per non crearle ulteriori disagi.”

“L’ospedale di Monfalcone è già stato avvertito, signora Capello. Non dovrà aspettare.” Beltrame porse alla donna che tremava un cardigan di lana lilla. Doveva essere della mamma di Zoli, pensò Maddalena.

Violetta Capello accettò riluttante.

“Perfetto. E dopo la visita, le rivolgerò qualche domanda.”

“Quando ho finito in ospedale, voglio tornare a casa. Sono esausta, e comunque non ricordo nulla. L’ho detto anche ai due che mi hanno trovata. In più mi gira la testa,” protestò Violetta in tono spento.

Maddalena si girò verso Beltrame ignorando l’obiezione. “Andate subito, è meglio.”

Mentre la poliziotta accompagnava la donna alla porta, premendole leggermente il palmo sulla spalla, Zoli entrò nella stanza, con il telefono in mano e una vena bluastra, che ormai Maddalena conosceva bene, in rilievo sulla fronte. “Ho ricevuto la comunicazione che un’insegnante di Grado, tale Olivia Merluzzi, ha denunciato il rapimento della signora Capello. Adesso i colleghi di Tolmezzo hanno interrotto le ricerche e la stanno portando da noi.”

“Ottimo. Allora forse abbiamo una testimone. Chiami Lippi e gli dica di venire immediatamente. Ho bisogno di lui per gli interrogatori.”

“Già fatto,” rispose pronto Zoli.

“Bravo.” Maddalena sorrise al sottoposto, che diventò rosso. “Appena arriva la signora Merluzzi, la faccia accomodare nel mio ufficio e parli con i colleghi di Tolmezzo. Poi berrei molto volentieri un caffè. Del suo thermos.”

Zoli si illuminò e scattò sull’attenti. “Agli ordini, capo.”

Soddisfatta, Maddalena tornò da Claire e Maurizio, che la aspettavano sulle scomode sedie.

“Eccomi, ora sono tutta per voi,” disse sedendosi al suo posto, poi li osservò con attenzione. “Volete bere qualcosa?”

I due rifiutarono, e Claire tirò fuori una bottiglia d’acqua dalla borsa a tracolla, ringraziando con un sorriso.

In quell’istante comparve Lippi, sempre un po’ trafelato per colpa dei chili di troppo, che borbottò un saluto e avvicinò una sedia alla scrivania. Diversamente da Zoli, nutriva qualche riserva nei confronti della superiore.

“Possiamo cominciare.” La voce di Maddalena era decisa. Lippi accese il registratore, poi sfilò dalla tasca il taccuino dal quale non si separava mai e pescò una biro dal portapenne. “Dove eravate stati?”

Maurizio si schiarì la gola. “Ogni due o tre mesi facciamo un salto in Austria, al casinò di Velden. Ci piace guardare la gente e respirare la tensione ai tavoli da gioco. Noi spendiamo soltanto i soldi per l’ingresso, ma l’ambiente è bello e si mangia bene. Stasera abbiamo fatto tardi, e io ero stanco. Claire voleva darmi il cambio e guidare fino a casa, così ci siamo fermati.”

“Perché nel parcheggio di Carnia Ovest e non all’area di servizio di Campiolo, subito prima?”

“Lì c’è sempre confusione, a qualunque ora del giorno e della notte. Volevamo evitare l’assembramento di gente, pullman e camion.”

Lippi annuì comprensivo. E Maddalena rifletté che anche l’aggressore doveva aver fatto lo stesso ragionamento.

“Siamo scesi dall’auto e abbiamo lasciato le portiere aperte perché avevamo intenzione di ripartire subito. Un attimo dopo abbiamo visto un uomo attraversare di corsa il campo, saltare su una macchina e allontanarsi a gran velocità. È successo tutto molto in fretta.”

Maurizio guardò la moglie, che confermò con un cenno della testa. “Era strano,” aggiunse lei, “ma lì per lì non lo abbiamo collegato a qualcosa di grave. Poi mi è sembrato di sentire il lamento di un animale e mi sono bloccata. Poteva essere stato investito. Il pensiero del nostro Volpone sul ciglio di una strada senza nessuno che lo aiutasse mi ha spinta a cercare nel campo da cui era fuggito l’uomo. E abbiamo trovato la donna. Piangeva sdraiata a terra, abbiamo temuto che fosse ferita. Era nuda dalla vita in giù.”

Lippi le rivolse un’occhiata interrogativa. “Volpone?”

“È il nostro cane. Un setter irlandese.”

“Vai avanti,” si intromise Maddalena con uno scatto impaziente della mano rivolto a Lippi.

“Fa’ vedere alla commissaria cosa aveva intorno al collo quella poveretta,” disse Maurizio alla moglie.

Claire prese un sacchetto di plastica dalla borsa e lo consegnò a Maddalena.

Vedendo il contenuto, lei e Zoli si scambiarono un rapido sguardo.

Anche se i due non si sarebbero dovuti allontanare dalla scena del crimine, almeno avevano avuto la presenza di spirito di imbustare il reggiseno.

“Bel lavoro,” commentò Lippi.