Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Titolo originale: Endgültig

© Suhrkamp Verlag Berlin 2016

 

© 2017 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Traduzione dal tedesco di Monica Pesetti

 

Le citazioni a p. 72, pp. 295-96, p. 351, sono tratte da Max Frisch, Il mio nome sia Gantenbein, trad. di Ippolito Pizzetti, Feltrinelli, Milano 2003.

Le citazioni a p. 140, p. 194, sono tratte da Inazō Nitobe, Bushidō. L’anima del Giappone, trad. di Monica Amarillis Rossi, Luni Editrice, Milano 2016.

La citazione a p. 142 è tratta da Yamamoto Tsunetomo, Hagakure. Il libro segreto dei samurai, a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia Bassani, trad. di Maki Kasano, Mondadori, Milano 2002.

La citazione a p. 71 è tratta da Truman Capote, L’arpa d’erba, trad. di Bruno Tasso, Garzanti, Milano 2014.

 

Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

 

ISBN 978-3-96041-232-8

 

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Via Amedeo Avogadro 62

00146 Roma

www.emonsedizioni.it

 

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ANDREAS PFLÜGER

NERO ASSOLUTO

Traduzione di Monica Pesetti

Per Anne. Sempre.

Personaggi principali

Jenny Aaron – profiler e agente speciale del BKA

Jörg Aaron – comandante del corpo d’élite GSG 9

Ulf Pavlik – agente speciale

Sandra – moglie di Pavlik

Niko Kvist – agente speciale

Inan Demirci – capo del Dipartimento

Ludger Holm – criminale

Sascha Holm – fratello di Ludger

Reinhold Boenisch – detenuto

Helmut Runge – rappresentante

Armin Bosch – ex militare

Forze di polizia

GSG 9 – Grenzschutzgruppe 9, corpo d’élite antiterrorismo e operazioni speciali

LKA – Landeskriminalamt, ufficio di polizia criminale del Land

BKA – Bundeskriminalamt, ufficio federale della polizia criminale

SEK – Spezialeinsatzkommando, gruppo speciale di intervento in uniforme

MEK – Mobile Einsatzkommando, gruppo mobile di intervento sotto copertura o in borghese

Quando arriverà la fine
se ne avrò il tempo
non voglio chiedermi perché devo morire
ma sapere perché ho vissuto.

La Sagrada Família

Niente la calma come pulire la sua arma. Chiunque altro dovrebbe controllare il caricatore per accertarsi che sia vuoto. Non lei. Lei conosce il peso esatto del magazzino che scivola nella sua mano, fino all’ultimo grammo. Sa che non ci sono munizioni nella canna della Browning Hi Power come sa che i suoi occhi sono verdi. E a volte neri.

In quattro secondi netti ha ribaltato il chiavistello di montaggio, sbloccato ed estratto la culatta e sfilato la molla di recupero dall’otturatore. Qualità belga.

Quante volte le è stata grata.

La prima a ventidue anni, quando un trafficante di droga voleva toglierle la vita senza considerare che certe cose bisogna volerle in due.

Un anno dopo, durante la consegna del riscatto, era preparata al momento in cui aprirono la sacca che conteneva solo ritagli di giornale, ma non al revolver 2’’ che il rapitore del bambino teneva nella fondina da caviglia. Nei mesi successivi era riuscita a dormire soltanto con la luce accesa.

Lui non era stato l’ultimo.

Li ricorderà sempre, uno per uno.

Il sicario che doveva portarle i saluti di Ilja Ivanovič Nikulin la trovò a Mosca. Avevano giocato al gatto e al topo nel parcheggio sotterraneo dell’Hotel Aralsk finché lei era diventata il gatto e lui il topo e lo aveva sentito piangere come un bambino. Avergli sparato allo stomaco non era stato un problema. Ma ancora oggi la giovane impiegata dell’albergo, colpita al cuore da un proiettile di rimbalzo della sua Browning, la fissa e lei vede gli occhi di quella donna a cui ha tenuto la mano fino alla fine.

Lubrifica con cura canna e otturatore tamponandoli con l’olio sul lavandino del bagno lussuoso e pensa che solo una volta non ha pulito la sua pistola.

Napoli. Il vicolo vicino alla basilica di Santa Chiara, dove li aspettava il capo del clan Mazzarella con cui avevano negoziato il finto acquisto di dieci milioni di euro falsi. Quando l’uomo aveva sputato la parola “Puttana”, facendole capire che era stata scoperta, la prontezza di riflessi non le era servita a nulla.

Aveva premuto il grilletto, ma il colpo non era partito.

Il giorno prima lei e Niko erano dovuti tornare in aereo a Berlino per qualche ora. Il sottosegretario del Ministero dell’Interno voleva essere informato di persona sugli sviluppi della faccenda; un bradipo che non avrebbe mai capito la differenza tra un’annotazione su una pratica e una Magnum calibro 357. Dopo si era sfogata al poligono, trecentocinquanta colpi, era corsa all’aeroporto e, tornata a Napoli per l’incontro con il capoclan, la Browning si era inceppata per colpa della condensa dei gas di combustione e dei residui di polvere da sparo.

Le servirà di lezione per tutta la vita.

L’uomo le premeva la canna della Luger contro la radice del naso. Meravigliata, si rese conto di non aver paura. Pensava solo che la fessura tra i denti che il capoclan digrignava come un lupo sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto.

E invece lui era crollato ai suoi piedi senza emettere un suono.

Niko.

Un colpo alla testa da cento metri con una Colt.

Queste non sono cose che si imparano.

Sfrega delicatamente tutti i componenti dell’arma con uno spazzolino da denti per bambini, fa attenzione a non graffiarli, nota soddisfatta che l’olio è diventato nero come l’inchiostro; solo così va bene. Infila lo spazzolino nella canna e la pulisce dall’interno. È consapevole di quanto le piaccia toccare il metallo, indistruttibile eppure morbido e caldo.

Le fa quell’effetto da quando suo padre la portò per la prima volta nella vecchia cava di pietra, a dodici anni. Le aveva insegnato a sparare, dicendole tutto ciò che un poliziotto può tramandare a una figlia.

La sua prima arma l’aveva ricevuta per i diciotto anni. Una Starfire 9mm usata ma ben tenuta, che pesava solo quattrocento grammi e si adattava perfettamente alla sua mano. Amava quella pistola, un vero gioiello.

Ora asciuga il metallo e lo annusa.

Ha un buon odore. Di nocciola. Di dolce. Di puro.

Quattro secondi netti per rimontare la Browning.

Lo schiocco saturo della culatta che si aggancia è il miglior betabloccante.

Ma non oggi.

Jenny Aaron torna nella camera della suite. Niko Kvist è sdraiato sul letto. Sta studiando il dossier per la terza volta. Lei non ne ha bisogno. La sua memoria è un software ad alte prestazioni, le sono bastati cinque minuti per immagazzinare tutto.

Nel febbraio del 1912 Marc Chagall dipinse a Parigi I ballerini, due innamorati abbracciati sospesi su una fune ad altezza vertiginosa fra le torri di Notre-Dame. Il quadro gli piacque così tanto che lo tenne per sé. Quando tornò in Russia, alla vigilia della Prima guerra mondiale, lo regalò alla sua musa e futura moglie, Bella.

All’inizio degli anni Venti i due lo portarono a Berlino, dove restò appeso nella loro camera da letto a incantare Bella. Ma quando Chagall le confessò una sua avventura, lei vendette I ballerini a un gallerista ebreo per punire il marito.

Quattro anni dopo la presa di potere, i nazisti confiscarono tutte le opere di Chagall che riuscirono a trovare e le bollarono come “degenerate” in una mostra alla Casa dell’Arte di Monaco. Al termine dell’esposizione le tele sarebbero state svendute a Lucerna, ma il custode notturno del museo, rimasto solo dopo la morte prematura della moglie, si era innamorato dei due ballerini e restava a guardarli per ore. Non era un uomo coraggioso, tuttavia il pensiero di non poterli più contemplare era talmente insopportabile che fece sparire il dipinto prima che lo portassero via e riuscì a convincere tutti di non saperne niente. Lo nascose in soffitta fino alla fine della guerra. Poi lo appese in soggiorno, di fronte alla credenza barocca.

Quando morì, in tarda età, i figli fecero valutare il quadro. Naturalmente non ebbero il permesso di tenerlo, e andò alla facoltosa nipote del gallerista che lo aveva acquistato da Bella Chagall. La donna sapeva quanto avesse significato I ballerini per il nonno e voleva onorare la sua memoria, così lo concesse in prestito permanente alla Nationalgalerie di Berlino.

E lì fu rubato. Tagliato dalla cornice in pieno giorno. A sangue freddo. Con precisione chirurgica. Senza lasciare tracce.

Due anni: niente.

I primi di novembre Niko aveva ricevuto una soffiata da un informatore: un uomo di nome Egger aveva il quadro di Chagall. Gli ci erano volute tre settimane per prendere contatti a Bruges.

La sua copertura: promotore finanziario, patito d’arte.

Egger voleva tre milioni di sterline. A Barcellona.

È per questo che loro sono qui, due agenti in missione con una borsa piena di soldi.

La copertura di Aaron: l’esperta che deve garantire l’autenticità del dipinto.

Niko si alza. Circonda Aaron con un braccio e le accarezza delicatamente la guancia. Niko sa di buono. Stanno insieme da un anno. Al Dipartimento nessuno deve saperlo, altrimenti non potrebbero più lavorare in coppia. Sono bravi a mantenere i segreti. Ma hanno così poco tempo per loro. In quei dodici mesi Niko è già stato in missione tre volte. E Aaron due. Varsavia, Helsinki. Durante i quindici giorni di ferie a Marrakech non erano quasi mai usciti dal piccolo riad a Jamaa el Fna. Come i ballerini di Chagall, sospesi tra il caldo torrido del giorno e il freddo della notte. Il vento gelido che soffiava dalla catena dell’Atlante spazzava i vicoli. Per loro era irrilevante, come mangiare e bere.

Dopo Napoli, Barcellona era la loro seconda missione insieme. A Napoli però si giravano ancora intorno come due gatti che dividono una ciotola di latte. E adesso lei lo sa: c’è differenza tra dormire con l’uomo che ami in vacanza o prima di un’operazione. Perché è così tesa? Non se lo spiega. Barcellona è routine, ha affrontato incarichi più difficili. Eppure quella notte non è riuscita a chiudere occhio, dominata da un tremito continuo, mentre al suo fianco Niko respirava come un bambino.

Nella solitudine ha cercato il numero dietro quel tremito.

A ogni numero da uno a dieci ha associato un’emozione. Uno è il piacere, due significa gratitudine, quattro il controllo perfetto, il cinque esprime il disprezzo, il sei la compassione, il sette l’impazienza, otto indica l’orgoglio, nove la felicità. Il dieci è l’adrenalina.

Al numero tre cerca di non pensare.

È ora.

Mette la Browning nella cassetta di sicurezza della camera, vicino alla Colt di Niko. Dove stanno andando non possono portare armi.

La porta dell’ascensore si chiude. Tre piani. Aaron sposta più volte il peso da una gamba all’altra, reclina la testa per allungare il collo, stringe le spalle, le muove avanti e indietro, fa roteare le braccia, allarga le dita dei piedi nelle ballerine, scioglie i muscoli per aumentare l’elasticità dei movimenti.

Senza rendersene conto si tocca la cicatrice sulla clavicola sinistra. Non è l’unica che ha. Ma è la più importante.

“Conosco un ottimo ristorante al Parc Güell,” dice Niko. “Potremmo fermarci un giorno in più e domani festeggiare, che ne pensi?”

“Un’altra volta.” Non intende rimanere lì più dello stretto necessario, neanche se la coprissero d’oro.

Nella hall un bambino è seduto accanto alla madre. Ha un viso quasi antico, occhi come rocce su cui secca la salsedine. Legge un fumetto: Daredevil. Giustizia cieca. Aaron sente lo sguardo del bambino sulla schiena. Si volta indietro. La madre si è alzata, ma lui non si muove, resta seduto, fissa Aaron.

Il collega dei Mossos d’Esquadra che recita la parte dell’autista tiene aperta la portiera della Daimler. Jordi. Gli altri due, Ruben e Josue, si fingono guardie del corpo e li seguono con una seconda limousine.

Quei ragazzi sono la loro assicurazione sulla vita.

Jordi guida veloce. Massicci rettangoli di cemento armato tirati su negli anni Settanta. Ad Aaron piace tutto ciò che è geometrico.

Barcellona respira l’ultima luce. Il cielo è un fachiro che cammina sui carboni ardenti delle nuvole.

Un dieci più. L’adrenalina si infrange come un’onda contro i ventricoli del suo cuore. Ne conosce quattro tipi. L’adrenalina che precede il contatto: mi aspetta una stretta di mano o una pallottola? L’adrenalina in pericolo di morte. L’adrenalina della ferita. L’adrenalina di quando ripensi all’errore commesso.

Bisogna sempre mettere in conto un errore.

“Guarda,” dice Niko.

Lei sa che vedrà la Sagrada Família, il tempio della follia creato da Gaudí, trionfo della fede, vestigia del cattolicesimo, monumento alla vittoria più grande e al fallimento più crudele, mozzafiato, splendida, ma al tempo stesso inquietante nell’assenza di ogni ordine, eccessiva, spaventosa.

Volta la testa e guarda dal finestrino.

Ma fuori non c’è nulla. Assolutamente nulla.

La cattedrale è inghiottita da un buco nero, una voragine in cui la luce sprofonda, che si estende come l’universo, risucchia Jordi, Niko e Aaron quasi fossero asteroidi al confine di una galassia.

In preda al panico, Aaron vorrebbe toccare Niko, ma la sua mano è separata dal corpo e non le obbedisce.

Chiude gli occhi e li riapre.

Sono all’incrocio con Carrer de Mallorca. I lampioni si accendono sfarfallando. I tassisti ridono nel loro posteggio. Coppie di innamorati si incontrano all’ingresso di un cinema. Un cane tira il guinzaglio. Un bambino piccolo piange.

“Dimmi un numero da uno a dieci,” chiede Aaron.

L’espressione di Niko è sorpresa, canzonatoria.

“Per favore.”

“Tre.”

Sono in tre e aspettano davanti al magazzino al porto. Un’Audi nera. Aaron vede subito che è stata modificata.

Egger è alto e magro, agile malgrado i quarantacinque anni che a occhio e croce gli dà. Scarpe Oxford. Abito di sartoria, nodo della cravatta perfetto. All’occhiello una camelia bianca. La mano che le porge è curata, fredda, liscia. Ha la disinvoltura di un uomo che legge Dostoevskij in originale. Ma i robusti muscoli del collo sono tesi come cavi di acciaio, anche mentre china appena la testa e dice ad Aaron con voce morbida e sonora: “Per lei sarei stato disposto ad aspettare anche due minuti.”

È arrogante. Forse perché raramente incontra persone con un’intelligenza pari alla sua. Aaron non ha dubbi che sappia quanto è prezioso il dipinto. Non conosce solo la quotazione di mercato. No, comprende il suo valore reale, la verità e la lungimiranza e la profondità che hanno permesso a Chagall di creare I ballerini in un solo giorno, la forza che anche Aaron ha sentito guardando una semplice riproduzione.

Come deve essere bello l’originale.

All’improvviso si chiede perché Egger preferisca rivenderlo anziché tenerlo.

Lui non accenna a voler presentare la donna e l’uomo, di una decina di anni più giovane, che sono con lui. La donna è attraente e sicura di sé. Mostra un notevole senso dell’equilibrio mentre fa il giro dell’auto sul tacco 12. Se tenesse in mano un bicchiere d’acqua pieno fino all’orlo non ne verserebbe neanche una goccia.

L’uomo più giovane ha occhi come gettoni di plastica nera, piatti e senza vita. Se non fosse per il mozzicone di sigaretta che gli pende all’angolo della bocca verrebbe da pensare che sia privo di labbra. Il naso rotto è stato raddrizzato alla meglio. Sul dorso della mano destra prolifera un’estesa voglia violacea, congenita.

Ma la somiglianza con Egger è evidente.

Fratelli. Strano.

Entrambi indossano una fondina, Egger non riesce a nasconderla nemmeno con il doppiopetto Savile Row. Aaron è pronta a scommettere che il vanto di Occhi di gettone è una Glock 33. Di certo Egger non ne ha bisogno. Non è il tipo che ostenta le armi. E poi ha stile, una pistola con il calcio in plastica non fa per lui. Una Remington 1911, piuttosto, o una Beretta Target.

Le fondine sono vuote, Aaron nota anche questo al primo sguardo.

Un espediente per infondere fiducia.

Niko domanda: “Dov’è il quadro?”

“Dove sono i soldi?”

Niko fa un cenno a Jordi, che apre la grossa sacca sul sedile del passeggero della Daimler. A Berlino avevano pensato di usare banconote false. Ma sarebbero intervenuti solo dopo aver ottenuto il dipinto e, dovendo mettere in conto che Egger non lo avrebbe portato con sé sul luogo dell’appuntamento, avevano optato per banconote usate e pulite.

Egger le degna di un’occhiata tanto noncurante da rasentare lo scherno. Solleva lo zigomo di un millimetro in una specie di sorriso. “Soltanto noi due e le donne. I suoi uomini restano qui con lui.” Il fratello. “Consideratelo una cauzione.”

Niko riflette brevemente. “D’accordo.”

Seguono Egger e la donna nel magazzino.

E Aaron lo sa: è stato il primo errore.

Voleva presentarsi armata, una fondina da caviglia sotto i pantaloni larghi, ma la decisione spettava a Niko che conosceva Egger. “Non si fida neppure di una donna bella come te. Ci perquisirà entrambi.”

Non lo ha fatto. Perché?

Aaron si volta indietro. I catalani scuotono la testa quando Occhi di gettone allunga verso di loro il pacchetto di sigarette. Bravi ragazzi, lo aveva capito durante un corso di addestramento al tiro. Dopo erano stati invitati tutti a cena a casa di Ruben. Bambini che si arrampicavano sui mobili, risate, paella, acquavite di Andorra che faceva venire le lacrime agli occhi.

Più tardi era uscita in terrazza a fumare. Gli alberi discutevano con il vento. Le finestre brillavano tra le foglie come in un calendario dell’avvento. Lei cosa avrebbe trovato il 3 dicembre? Musica, una festa nei paraggi. Ma Aaron era lontana. Jordi era andato a scroccarle una sigaretta. Avevano fumato come chi sa che non c’è un cioccolatino dietro ogni finestrella.

Jordi aveva detto: “Faccio questo lavoro da troppo tempo. Non dormo più. Da gennaio passo dietro la scrivania.”

La porta del magazzino si chiude alle spalle di Aaron. Un deposito di caffè. Gli aromi sono così intensi che per un attimo le manca l’aria. Tarassaco, zucchero caramellato, tabacco da pipa umido, legna appena spaccata.

Su un sacco di caffè, un involucro. Il dipinto.

Aaron chiede: “Posso?”

La donna le consegna l’involucro.

Aaron ha un udito eccezionale. Una volta al poligono a Pavlik erano rotolate alcune munizioni dallo stallo di tiro.

Lei non aveva avuto bisogno di guardare: erano cinque.

Adesso, appena le arrivano tre tonfi secchi uno dopo l’altro, sa che nell’involucro non c’è nessun dipinto.

Che Jordi non avrà mai la sua scrivania.

Una Remington si materializza come per incanto nella mano dell’uomo che si fa chiamare Egger. Aaron si lancia sopra i sacchi, sente i proiettili fendere l’aria, fa una capriola e scatta in piedi in un unico movimento, vede Niko cadere a terra, raggiunge il capannone sul retro correndo a zig-zag mentre una tenaglia arroventata le azzanna il braccio, e non riesce a pensare ad altro che: Niko! Niko! Niko!

Due porte, roulette. Punta tutto sul rosso, spalanca quella di destra e si ritrova in un corridoio buio pesto. Avanza incespicando, tasta davanti a sé con le mani finché urta contro una parete. Porta sbagliata, vicolo cieco. Si appiattisce in una nicchia. Qualcosa di caldo le scorre sul braccio. Nessun dolore. Si accende la luce. Come una macchina, il cuore le manda in circolo un terrore folle. Rumore di passi leggeri. La donna si è tolta le scarpe col tacco, è scalza.

Ancora cinque metri. Aaron vede l’interruttore sulla parete di fronte. Troppo lontano. Rivolta il pensiero come una moneta, cerca un’alternativa.

Non la trova.

Quattro metri.

Tre.

Aaron si lancia fuori dalla nicchia. La donna spara. Mano destra, ferita di striscio. Il pugno di Aaron batte sull’interruttore. Buio. Si getta a terra, due proiettili vanno a vuoto. Fa cadere la donna con una presa a forbice delle gambe. La colpisce con forza sul plesso solare con indice e medio, lei boccheggia senza fiato. Aaron si accorge che la donna piega il braccio stringendo la pistola, le afferra la testa, la gira di scatto con tutte le sue forze e sente l’osso del collo che si spezza.

Prende la pistola, riconosce al tatto una Walther, estrae il caricatore. Vuoto. La macchina che ha al posto del cuore le pompa la disperazione nelle vene. Forse però c’è ancora una munizione in canna.

Ti prego, ti prego, ti prego.

Non riesce a capirlo dal peso, trema come una foglia. Non osa tirare indietro il carrello per controllare, troppo rumore.

Ha il battito iperaccelerato. La frequenza cardiaca deve essere compresa tra sessanta e settanta, la sua supera i duecento. In quelle condizioni non sarebbe nemmeno in grado di sparare.

Aaron si costringe a respirare lentamente con il diaframma, espande i polmoni, rifornisce i muscoli di ossigeno e si concede trenta secondi per ridurre i battiti. Ci siamo?

È in piedi al buio. Inspira profondamente un’ultima volta ed espira. Dentro, fuori. La mano destra trova l’interruttore.

Ora.

Aaron accende la luce. Occhi di gettone. A cinquanta metri. Il dito di Aaron si contrae sul grilletto. Non ha mai sentito un rumore più bello di quello sparo. Centra Occhi di gettone al collo. Lui fa un mezzo giro su se stesso e crolla a terra. Sessanta passi precipitosi. Occhi di gettone fissa il soffitto. La giugulare è intatta, ma non riesce a muoversi. Shock. Nella sua Glock 33 silenziata mancano tre proiettili. Jordi, Ruben, Josue.

Correre nel capannone, assumere la posizione di tiro, puntare con due mani, ridurre al minimo la superficie esposta. Niente Egger.

Niko! Niko! Niko!

È raggomitolato come un feto accanto all’involucro. La camicia è intrisa di sangue. Dalle labbra esce una schiuma rossa. La voce è leggera come il suo respiro nel sonno. “Vattene.”

Aaron cerca di sollevarlo, novanta chili di muscoli, non ce la fa. Prova un’altra volta. E ancora e ancora.

Dov’è Egger?

Niko le prende la mano. Tira Aaron verso di sé, accosta la bocca al suo orecchio. Lei capisce le parole ma non il senso.

“Devi,” dice a fatica.

Egger compare nel capannone come da dietro le quinte di un palcoscenico. Aaron si scaglia verso di lui. Fanno fuoco contemporaneamente. Cinque spari, che si fondono in un unico suono. Egger svanisce. Aaron non sa se lo ha colpito. No. Lo sente inserire un nuovo caricatore.

Lo sguardo di Niko. Un’eternità.

Inizia a correre. La Remington spara una serie di colpi ravvicinati. Aaron si infila la Glock tra i denti e si catapulta fuori con un doppio salto all’indietro. Un proiettile la raggiunge, ancora il braccio destro, perde l’equilibrio, sbatte la schiena, spara due colpi verso la porta da sopra la testa e rotola in copertura.

Vede i tre cadaveri.

Aaron vuole scattare in piedi, ma non sente più il proprio corpo. Prega che si attivi la riserva e le fornisca quel cinque per cento di energia residua che un essere umano ha ancora a disposizione nel momento in cui pensa: è la fine.

Piega un mignolo.

Ok.

Due dita.

Ok.

Muoviti!

Si trascina fino alla Daimler. Crolla al volante.

La chiave è inserita.

La pesante limousine scatta in avanti soffiando minacciosa. Egger si lancia fuori dal capannone. Il finestrino va in frantumi sotto le pallottole. Un proiettile traccia una scia di fuoco sulla nuca di Aaron. L’auto sterza bruscamente in Vía de Circulació. Cinquecento metri a tutta velocità. Aaron imbocca lo svincolo della tangenziale. A sinistra intuisce le rocce a strapiombo, a destra le luci del porto sfrecciano come fotoni dentro un acceleratore di particelle.

Solo adesso si accorge delle ferite. Il braccio destro sembra di ghiaccio, la mano una palla di fuoco. Il sangue le cola lungo la schiena.

Aaron guarda nello specchietto retrovisore.

E vede l’Audi.

Schiaccia l’acceleratore al massimo e porta la macchina a duecentocinquanta. Ma Egger rimonta. La sua auto pesa cinquecento chili di meno e ha il doppio dei cavalli. Una monovolume che vuole superare un camion si immette davanti a lei. Aaron si sposta dalla corsia di sorpasso a quella di emergenza. Lo specchietto esterno graffia un segnale stradale, si stacca e vortica nell’oscurità.

Egger è incollato al paraurti posteriore della Daimler. Si immergono nel tunnel di Plaça de les Drassanes.

Duecentosessanta.

Aaron realizza disperata: Più di così non posso.

L’Audi l’affianca sulla sinistra senza il minimo sforzo.

Egger e Aaron si guardano.

Un attimo che sopravvive al tempo.

Aaron intuisce un’ombra davanti a sé, un’auto. Il suo sguardo saetta sulla carreggiata, la corsia di emergenza non c’è più, non può scansarsi, sa che le rimane solo lo spazio di pochi secondi quando solleva di scatto la pistola con il braccio ferito.

Ha il dito sul grilletto, ma Egger è più veloce.

Qualcosa esplode nella testa di Aaron. Un lampo lacera il mondo come un foglio di carta. Vede ogni cosa estremamente rallentata, di un bianco abbagliante, come in una pellicola sovraesposta all’inverosimile: il tetto della macchina che si capovolge fino a essere sotto di lei, le banconote che svolazzano come foglie secche, il suo viso nello specchietto retrovisore, paesaggio amorfo, distesa innevata, nulla eterno.

Poi di nuovo tutto da capo, però mille volte più veloce, un turbinio, un dolore, un urlo unico.

E ancora un lampo.

In un nanosecondo il mondo non esiste più.

Aaron sente il rumore dell’acciaio che corrode il cemento e dopo silenzio, silenzio, silenzio. L’ultima cosa che ricorderà è il tanfo di caffè, nauseante come cenere fredda.

1

L’hostess chiede per la seconda volta: “Macchiato?”

“Nero.” Aaron allunga la mano e sente la tazza premerle contro il palmo. Il pilota annuncia: “Fra trenta minuti atterreremo a Berlino. Nevica da stamattina. Siete pregati di tenere allacciate le cinture di sicurezza, sono previste turbolenze.”

Aaron si costringe a bere il caffè.

Da quando lavora al BKA a Wiesbaden le occasioni per una trasferta a Berlino sono state molte. La polizia criminale federale ha un’importante base a Treptow, dove sono dislocati, tra gli altri, il gruppo per la protezione personale, l’unità antiterrorismo e il reparto operazioni speciali. Aaron però è sempre riuscita a svicolare.

È cresciuta in Renania, ma a venti anni Berlino è diventata la sua casa e, anche se non ci torna da cinque anni, in un certo senso lo è ancora. Lo percepisce chiaramente a ogni chilometro che passa. Dentro di lei dilaga l’impazienza, la gioia del rientro, un fremito di eccitazione. La disorienta, perché in questo viaggio di ritorno, per le ventiquattr’ore che resterà, il suo bagaglio è la paura.

Cinque anni. Aaron non ha nemmeno disdetto l’appartamento a Schöneberg, se n’è occupato suo padre.

A Berlino ha lasciato solo poche persone di cui sente la mancanza. La vita che faceva quasi non le permetteva di avere amici. In pratica Pavlik e la moglie Sandra erano gli unici. Quando a venticinque anni era entrata nel dipartimento senza nome, lui l’aveva subito presa sotto la sua ala.

L’unica donna tra quaranta uomini.

Da Pavlik aveva scoperto che tutti, non importava da quanto tempo fossero lì, conoscevano le notti in cui arrivava il tremito.

Per Aaron era stato un grande sollievo: essere presa tra le braccia e poter consolare gli altri.

Eppure negli anni trascorsi da Barcellona lei e Pavlik non si sono più parlati. Si erano sentiti per telefono i primi mesi. Pavlik cercava di fingere che in Spagna non fosse successo nulla di grave, si rifugiava in un atteggiamento disinvolto, solo così riusciva a gestire la situazione. E Aaron non trovava le parole per spiegare cosa significasse per lei, non le trova nemmeno oggi. Alla fine le telefonate si erano interrotte.

Riconoscerò la sua voce?

“Iniziamo l’atterraggio a Berlino Schönefeld. Siete pregati di chiudere i tavolini e riportare gli schienali in posizione verticale.”

“Ma brava!”

Quando il vicino le sbatte infuriato la tazza addosso, Aaron si rende conto che deve averla dimenticata sul tavolino mezza piena e rovesciata sui pantaloni dell’uomo.

“Ma è cieca?” sbraita lui.

“Sì.”

L’hostess di terra accompagna Aaron agli arrivi. “Immagino che la stiano aspettando,” dice, e la lascia sola.

Ferma, con lo sguardo calmo e la piccola valigia accanto, potrebbe essere una normalissima donna sui trentacinque anni, alta e attraente. Non lascia trasparire nemmeno il tremito che ha dentro perché sa chi verrà a prenderla. I primi tempi indossava la fascia gialla con i tre cerchi neri che indica i non vedenti. A volte però, mentre se ne stava tranquilla sul marciapiede o al supermercato immersa nei propri pensieri, senza una meta precisa, si sentiva afferrare inaspettatamente per un braccio e trascinare via, perché un volenteroso troppo zelante credeva che volesse attraversare la strada o raggiungere la scala mobile. Quando lei protestava poteva capitare che l’altro, preso alla sprovvista, la mollasse lì e si dileguasse. E lei non sapeva più dov’era.

Aaron batte il dito sull’orologio. La voce sintetizzata la informa: “Sei gennaio. Mercoledì. Ore otto, quattordici minuti e diciassette secondi.”

Forse hanno sbagliato volo. E adesso? Taxi?

Un incubo. Vai dove potrebbe essere il primo taxi, senti caricare valigie e indicare indirizzi, taxi successivo, portiere che si chiudono, macchina che parte, e tu rimani di picchetto come un testimone di Geova. Fare un cenno con la mano sarebbe ridicolo. Se hai fortuna, a un certo punto un autista ti urla scocciato: “Allora? Sale o no?”

Improvvisamente Aaron sa che Niko è già lì e la sta osservando.

Ferita a fondo cieco alla milza e ai polmoni. Persi due litri di sangue.

Sopravvissuto.

Finalmente le tocca la spalla. “Ciao.” La abbraccia come se si fossero salutati il giorno prima.

Aaron sente odore di tintura di iodio. Si è tagliato radendosi. Lei non vuole, ma la sua mano sinistra sì, si insinua sotto la giacca di pelle e sfiora il calcio della pistola. Una Makarov Single Action.

Lui prende la valigia, si dirigono verso l’uscita. Prima Aaron portava quasi sempre scarpe basse. Da quando è cieca i tacchi stiletto in acciaio sono il suo biosonar. Su una superficie dura come quella, ma solo in posti più silenziosi, in ambienti chiusi. Il terminal è troppo rumoroso. Aaron va alla deriva in una cupola di suoni, bisbigli, grida, voci che chiacchierano, carrelli dei bagagli che sferragliano, cellulari che suonano, bambini che strillano, un annuncio metallico in cattivo inglese e un altro, in tedesco, che si frappone bisticciando con il primo. È costretta a prendere a braccetto Niko.

Fuori il freddo le morde il viso. Fiocchi di neve danzano sulla sua pelle. L’andatura leggera, sinuosa di Niko, che non riesce a ingannarla perché un tempo anche lei era un predatore come lui.

Aaron schiocca più volte le dita, colpi secchi, sa che Niko si meraviglia, non gli dà spiegazioni, si orienta. Ogni oggetto riflette il suono in maniera diversa, ha le proprie onde acustiche. Ma ovviamente i rumori di fondo rappresentano un problema. Se cammina troppo a lungo per la città, la sera è a pezzi e le scoppia la testa.

“Attenzione, cestino dei rifiuti.”

Lo sapeva già. Anche perché sente l’odore di buccia di banana marcia e hamburger rancido.

Meglio ancora sarebbe schioccare la lingua, l’ecosonar di Aaron, con cui produce suoni vicini all’orecchio per evitare che vengano deviati dal suolo e dispersi. Gli echi modellano il mondo, lo illuminano come fa uno stroboscopio. Aaron è in grado di determinare grandezza e spessore degli oggetti a una distanza compresa tra i cinque e i duecento metri e ne riceve un’immagine pixellata.

Come un pipistrello o un delfino.

All’inizio non riusciva a crederci. Al centro di riabilitazione c’era una donna, cieca da parecchio tempo, che ogni giorno faceva visita ai pazienti per aiutarli durante le prime disperate settimane. Una volta, mentre passeggiava con Aaron nel parco della clinica, si fermò, schioccò la lingua e disse: “A destra ci sono sei alberi. Molto alti e grossi. Faggi, castagni o querce. A sinistra due, ma più piccoli, forse platani.” Aaron pensò che la donna la stesse prendendo in giro, ma un medico che stava passando non si sorprese e confermò. “Però non sono platani, sono giovani betulle.”

La donna schioccò di nuovo la lingua e diede un colpetto ad Aaron. “Laggiù c’è una casa. Direi a un centinaio di metri. E circa venti metri davanti a noi c’è una macchina parcheggiata.”

Era vero.

Aaron seppe: devo imparare anch’io.

Chi perde la vista da adulto raramente padroneggia quell’abilità alla perfezione. Ma Aaron si è esercitata come una pazza, nello stesso modo in cui ha sempre affrontato tutto.

Il suo primo successo fu il vialetto tra due edifici del centro di recupero, che riconobbe dalla corrente d’aria e subito dopo udì. Gli schiocchi di Aaron rimbalzarono contro i muri, ronzarono avanti e indietro e tornarono da lei, finché il suono si rifranse di nuovo. Lei esplorò il vialetto e urtò il container che aveva localizzato. Vittoria!

Ma usare l’ecosonar in presenza di Niko la metteva a disagio. L’avrebbe presa per Flipper?

Aaron si ferma. “Prima lasciami fumare.” Di certo Niko non sospettava quanto le ci era voluto per centrare con tanta precisione la sigaretta con la fiamma dell’accendino sembrando naturale.

Lui domanda: “Come va al BKA?”

“Bene. E da te?”

“Montagne di scartoffie.”

Come no. Per questo tieni la Makarov alla cintura. C’è un buon motivo per scegliere quel gingillo: il grilletto estremamente leggero.

Lui non le toglie gli occhi di dosso. Aaron volta la testa dall’altra parte. “Vado a prendere la macchina,” dice Niko.

“Ok.”

Quando è sicura che lui non può più sentirla, schiocca la lingua, un rumore secco, con le labbra arrotondate a formare una “o”. Aaron localizza un palo della luce. O sono due? A sinistra una colonna massiccia. Pubblicità? Ventilazione? A destra è fermo un pullman con il motore acceso, schiamazzi di una scolaresca, brandelli di conversazione, parole in una lingua scandinava.

Dopotutto anche ciò che Niko chiama vedere è solo un’eco di luce. Per questo vede il palo della luce, la colonna, il pullman, i ragazzi in gita.

Dunque ora è a Berlino. Come lo sa? Perché il pilota ha detto: “Iniziamo l’atterraggio a Berlino Schönefeld”? Perché qualcuno che passa in macchina si dispera in perfetto dialetto berlinese: “Cristo santo, questi parcheggi sono un vero strazio”? Wiesbaden è i corridoi silenziosi del BKA, dove all’inizio si chiedeva: ma ci sono solo io qui dentro?, la salsa verde di Francoforte alla mensa, le risate dei bambini nel parco giochi dietro casa, lo sferragliare della funicolare del Neroberg. Delle città conosciute in viaggio le restano la consistenza delle mani che ha stretto, le spezie nei cibi, il richiamo di un muezzin, il suono diverso delle sirene della polizia, una folata di vento su un’enorme piazza. Per lei Londra, Il Cairo, Parigi sono questo. E Berlino? Un manto caldo, che respira e si stringe a lei, un grido nella notte, ma anche l’essere stata quasi felice, a volte.

Vuole ricordarsi il viso di Niko. Non ci riesce.

Lui le posa la mano sul braccio. All’improvviso è di nuovo lì.

Tangenziale direzione nord. Aaron si concentra sul rumore dei tergicristalli che spazzano via la neve. Cerca di sincronizzare il battito del cuore all’intervallo costante e regolare.

Ti sono grata per molte cose, ma soprattutto perché a Barcellona non sei mai stato da solo accanto al mio letto. Non avrei sopportato il silenzio tra noi. Non hai mai pronunciato una parola di rimprovero. Io però mi vergognerò sempre, nel profondo, per il resto dei miei giorni.

Nessuno del Dipartimento ha mai abbandonato un compagno ferito.

Solo lei.

Riuscì a parlarne soltanto con una persona.

Suo padre era la più importante da che aveva memoria.

Non è così per tutte le femmine?

In seguito era diventato il suo mentore, poi il suo consigliere, il suo confidente. Per molti anni si erano visti di rado. Bastava. Erano legati da molte cose e uniti dalla consapevolezza di quanto possa essere lunga la frazione di un secondo.

Jörg Aaron. Veterano del GSG 9. 18 ottobre 1977, ore 23:45, baracca dell’aeroporto di Mogadiscio. Il cancelliere Helmut Schmidt ha dato il via libera all’assalto al Landshut della Lufthansa. Il colonnello Wegener è di fronte alla truppa e chiede: “Chi entra per primo?”

Dieci uomini fanno un passo avanti.

Jörg Aaron ne fa un altro.

È lui che fa irruzione dal portello di sicurezza sull’ala destra e uccide i primi due terroristi.

Quindici anni in prima linea. Poi comandante del GSG 9. In rapporti confidenziali con Yitzhak Rabin. Ordine al merito della Repubblica Federale. Una leggenda.

A ogni tappa della propria carriera Aaron notava le occhiate.

Così questa è la figlia di Jörg Aaron.

In ospedale fu lui il primo a tenerle la mano. Lui a imboccarla, lavarla e cullarla tra le braccia quando piangeva. Lui ad assicurarsi che la finestra del terzo piano non potesse essere aperta.

“Sono scappata. Ho abbandonato Niko al suo destino.”

“Avevi paura, è normale.”

“Come faccio a convivere con questo peso?”

“Smetti di pensarci.”

“Rispondimi.”

“Imparerai di nuovo ad alzarti la mattina e dormire la notte. A mangiare, bere e respirare. Ci saranno molti giorni, giorni buoni, in cui dimenticherai. Ma non te ne libererai mai.”

Fu a lui che domandò: “Come sono i miei occhi?” Perché sapeva che lui le avrebbe detto la verità, senza riguardi.

“Perfetti e stupendi.”

La frase più bella della sua vita.

Una settimana dopo era in condizioni di essere interrogata. Arrivarono a Barcellona due funzionari degli Affari Interni e si sedettero accanto al suo letto. Erano come tutti gli altri a cui aveva dovuto rendere conto nel corso degli anni. Contabili che quando stendevano un rapporto non lasciavano spazio all’adrenalina, alla paura di morire, al dolore.

Suo padre insistette per essere presente. I due non osarono proibirglielo.

Era Jörg Aaron.

Le lessero la dichiarazione di Niko: “Avevo un proiettile nella milza e uno nel polmone. Jenny non poteva spostarmi. Era sotto tiro. Ha preso la decisione giusta.”

“Signora Aaron, conferma questa versione?”

Non era una domanda complicata. E infatti lei voleva rispondere. Ma non sapeva cosa dire.

“Signora Aaron?”

“Sì.”

Quante volte ha ripensato a quel “sì”. Alla fine si è convinta che significasse “Sì. Può ripetere la domanda?” e non “Sì, è andata così”. Ma il “sì” era stato messo agli atti come assenso.

“Ha dovuto fronteggiare tre avversari. Due li aveva già neutralizzati. È corretto?”

“Sì.” Era quello che le avevano detto.

“Era riuscita a impadronirsi di un’arma da fuoco.”

“Sì.”

“Signora Aaron, lei fa parte del Dipartimento. È stata addestrata in combat shooting e quattro diverse tecniche di combattimento corpo a corpo, gestisce in maniera eccezionale lo stress e si è distinta in situazioni estreme. Non poteva eliminare anche il terzo uomo?”

Avrebbe dovuto dire la verità: che non lo ricorda. Sa di aver guardato un’altra volta Jordi, Ruben e Josue prima che la porta del capannone si chiudesse. L’immagine successiva è lei a terra davanti al magazzino che non riesce a muoversi. Che piega il mignolo. Che in qualche modo raggiunge la macchina. Il finestrino che va in frantumi. Lei che corre a tutta velocità sulla tangenziale, sul sedile accanto, dove dovrebbe esserci Niko, solo una sacca piena di soldi.

Che vede l’Audi nello specchietto retrovisore e sa: è la fine.

Un’occhiata, uno sparo, la fine.

“Secondo i nostri calcoli da quando ha lasciato il magazzino a quando è entrata nel tunnel devono essere passati quattro minuti. Corrisponde?”

La voce di suo padre graffiò come un’unghia sulla lavagna: “Secondo voi mia figlia si è cronometrata?”

“Il punto è questo, signora Aaron: avrebbe dovuto chiamare il MEK e un’ambulanza, al più tardi dalla Daimler. Perché non lo ha fatto?”

Quattro minuti.

Erano volati come secondi ed erano durati secoli.

“Signora Aaron?”

Suo padre la difese ancora una volta. “Lasciatevi dire una cosa, buffoni. Nessuno di voi due si è mai trovato a correre a tutta velocità su un’autostrada trafficata, gravemente ferito e con un sicario alle costole. In base alla mia modesta esperienza vi assicuro che telefonare è dura.”

Aaron firmò.

I due uomini se ne andarono. La mano del padre si posò sulla sua. Lei sentì il sangue che pulsava. Non parlarono.

Ma lui la amava.

Gli mancava ancora un anno e mezzo al pensionamento eppure lasciò il servizio, che per lui era tutto ma non valeva neanche la metà della figlia. Le trovò il centro di riabilitazione a Siegburg, vicino a Sankt Augustin, dove era cresciuta. Ogni mattina le leggeva il giornale prima di iniziare a lavorare con lei. Era inflessibile quando sbagliava le cose più semplici. La portava a fare la spesa e le insegnava a riconoscere dal peso della forchetta se aveva infilzato un pezzo di carne o di patata, la aiutava a imparare di nuovo a truccarsi, la incitava di continuo: Ancora! Ancora! Ancora!

Quante volte l’istruttore di orientamento e mobilità gli ha ripetuto: “Pretende troppo, solo chi è cieco dalla nascita raggiunge la perfezione.”

E suo padre rispondeva sempre: “Mia figlia ci riuscirà!”

La assillava anche perché prendesse dimestichezza con l’odiato bastone, purtroppo con scarso successo. Ancora oggi Aaron lo usa poco e male perché detesta essere immediatamente identificata come cieca.

Studiò il braille insieme a lei e le fece da cavia quando gli servì speranzosa la prima bistecca cucinata con le sue mani. Non sapeva ancora come si distingue il sale dal pepe, che se lo agiti il sale fa rumore e il pepe no. Quando suo padre tossendo commentò con voce strozzata: “Deliziosa!”, scoppiarono a ridere come matti.

Soprattutto però le insegnò la cosa più difficile: farsi aiutare, accettare che sarebbe dovuta dipendere dagli altri per il resto della sua vita e sentirlo non come un peso ma come una necessità.

Il primo giorno che Aaron trovò il coraggio di uscire da sola dalla clinica c’era un unico posto dove volesse andare: da lui. Aveva trascorso metà della notte ad aspettare con gioia il momento in cui lui avrebbe aperto la porta trovandosela davanti. Aaron sapeva che sarebbe stato in casa perché aspettava un amico. Fu orgogliosa di se stessa quando prese l’autobus giusto e dopo essere scesa si orientò con i punti di riferimento che aveva imparato, si lasciò guidare dagli odori e dai rumori come da bambina, e infine seppe: sono a casa.

Tastò il cancello, udì dei mormorii. Qualcuno le chiese di spostarsi. Delle persone le passarono davanti trasportando qualcosa. Le arrivò la voce rauca dell’amico di suo padre: “Sono io, Butz.”

Era crollato a terra dopo la frase: “Questo whisky me lo ha regalato il ministro dell’Interno quando ho lasciato il servizio.” Aaron non riuscirà mai a superare il trauma di non aver avuto il tempo di salutarlo e dirgli che senza di lui sarebbe morta.

Il traffico è lento, si stanno avvicinando allo svincolo vicino alla Torre della televisione. Dal respiro di Niko, Aaron si accorge che la osserva di continuo. Si volta puntando gli occhi nei suoi. Lui distoglie lo sguardo. Accelerare, frenare, accelerare.

“Mi dispiace per tuo padre.”

Lei si limita ad annuire.

Niko aveva prestato servizio al suo comando. Non aveva dovuto fare richiesta, era stato scelto dal padre di Aaron tra mille candidati. Un giorno lo aveva congedato, tenendo il motivo per sé. Nessuno lo aveva mai deluso quanto Niko, Aaron se ne accorgeva ogni volta che saltava fuori il suo nome. Era stato un colpo per suo padre sapere che stavano insieme. Una volta gli aveva chiesto cosa fosse successo tra loro. Lui le aveva risposto: “È una nave in cerca del suo iceberg.”

Un cuore che batte mette fine al ricordo. Niko ha azionato i tergicristalli. Esce dal raccordo. “I ragazzi della Quarta hanno fatto preparare una copia in braille del dossier.”

Non sa che farsene. Aaron maledice di essersi bruciata due polpastrelli con la fiamma del fornello il venerdì precedente. Legge con l’indice sinistro e non potrà usarlo almeno per una settimana. “Conosci i fatti. Raccontami tutto.”

Reinhold Boenisch, cinquantotto anni, condannato al massimo della pena per quattro omicidi, in carcere da sedici anni. Due giorni prima una psicologa interna è andata nella sua cella a fine turno, dove era stata invitata per una tazza di tè.

Boenisch l’ha uccisa e da allora non ha detto una parola.

Tranne una frase: Parlerò solo con Jenny Aaron.

2

Niko deve consegnare la pistola nella bussola del carcere giudiziario di Tegel. Controllo meticoloso nonostante i loro tesserini. I documenti vengono verificati. Bisbigli.

Dieci cose che Aaron non ascolta volentieri:

il tintinnio di chiavi pesanti

i corvi

i bisbigli

“È cieca?”

il gesso sulla lavagna

i motori al massimo

l’acqua in ebollizione che trabocca

“Sto solo facendo il mio lavoro.”

i tormentoni pop

le menzogne

“Quello cos’è?” L’agente le prende la borsa, e Aaron sa che intende il bastone telescopico, che un occhio inesperto non associa a quello usato dai non vedenti.

“Cosa sembra?”

L’uomo fa un passo indietro.

Un collega dice: “Un manganello. Resta qui.”

Aaron stende la mano. “Posso?”

Allunga il bastone con uno scatto secco e sente borbottare “Scusi”.

Mentre se ne vanno qualcuno dietro di loro dice a voce bassa, sicuramente troppo bassa per Niko: “Ti ricorda qualcuno?”

Una poliziotta li accompagna al servizio psicologico del carcere. Come profiler ed esperta in tecniche di interrogatorio, Aaron prende parte ai grossi procedimenti investigativi del BKA legati alla criminalità organizzata e al terrorismo, dove le vittime sono solo grandezze astratte, entità indistinte. Adesso è diverso. Vuole sapere chi era la donna uccisa per capire a quale vita è stata strappata.

Il vento fa turbinare la neve davanti a loro. Aaron sente i fiocchi sul polso, ospiti bagnati e frettolosi che non vogliono restare. È stata spesso lì, immagina la vasta area dall’aspetto abbandonato, sa che in quel momento tutti i detenuti stanno lavorando o sono chiusi in cella. Il servizio psicologico è stato allestito nell’edificio della scuola, sul retro, vicino al campo sportivo. I suoi pensieri scivolano nel passato, sente le grida di uomini infuriati: “Passa la palla! Non vali una sega!”

Questa volta non ha preso a braccetto Niko e si lascia guidare come da manuale, pollice e indice sul suo gomito, mezzo passo indietro, il fianco in linea con il suo ma senza contatto. Il suo istruttore sarebbe entusiasta.

Ma lo fa solo per non toccare di nuovo la fondina sotto la giacca di Niko e sentirsi come un ex alcolista in un negozio di liquori.

“Quanti anni aveva la dottoressa Breuer?”

La collega della vittima ha pianto molto. La sua voce è rauca, spenta, vuota. “Trentuno. Li aveva compiuti a dicembre. Ci ha invitati tutti al cinema.”

“Da quanto tempo era nel servizio psicologico del carcere?”

“Tre anni. Abbiamo fatto l’università insieme. Poi io sono venuta subito qui, è un impiego sicuro. Melly voleva uno studio suo, ma le cose non andavano bene. Lavorava anche come cameriera, non poteva continuare così. Quando si è liberato un posto da noi ho insistito finché l’ho convinta a fare domanda.”

Le lacrime provano a uscire, ma restano bloccate in gola.

“Le piaceva questo lavoro?”

“No, trovava tutto deprimente. Era sempre più magra. Io le dicevo: ‘Passerà, poi ti ci abitui.’” Le lacrime riescono a salire più su, ma non fino agli occhi.

“Aveva famiglia?”

“Una sorella in Norvegia, arriva oggi. Entrambi i genitori sono morti.”

“Era sposata?”

“No. È rimasta da sola per un pezzo perché aveva avuto qualche brutta esperienza, ultimamente però frequentava un uomo. Un tipo alto e magro, carino. Melly aveva perso la testa. La mattina quando entrava, illuminava la stanza.”

“Mi descriva il suo aspetto.”

Nessuna risposta.

“Non avrebbe una foto per il mio collega?”

La donna si riscuote. “Alta, circa un metro e ottanta, con i capelli neri e ricci, le lentiggini e una pelle che sembrava di porcellana. Melly era bella, era speciale. Nonostante i capelli scuri dava l’impressione di essere fredda. Ma in realtà non lo era.”

Aaron ha un capogiro.

“Lei le somiglia molto.”

“Boenisch veniva spesso qui?” domanda cercando un appiglio nei fatti.